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Pubblicata due giorni fa sul sito "Stile libero, rivista online di cultura e politica" che ha rappresentato la nostra fonte, vogliamo proporre questa riflessione di Marco Meucci, un nostro ex atleta specialista degli ostacoli. Marco è stato uno dei protagonisti in tutte le rassegne giovanili, fino alla categoria juniores. Secondo a Fano nel 2000 nei 100 Hs al criterium cadetti, medaglia d'oro ai campionati nazionali studenteschi negli 80 Hs e staffetta 4x100 (scuole medie; 1999), e nei 110 Hs (scuole superiori; 2002). Quinto a Torino nei 110 Hs allievi nel 2002, poi la scelta di passare ai 400 Hs, dove vanta 54"11 di personale e un terzo posto ai campionati italiani juniores nel 2004. Ha vestito la maglia della nazionale nel corso delle Gymnasiadi di Caen (Francia; 2002). Il suo allenatore è sempre stato Stefano Gorini, che lo notò quando era suo professore alle scuole medie.

 

BOONE 17 gennaio 2017 – Sono le 13:10 del 1° Gennaio 2017; mi trovo seduto ad un tavolino di mattonelle celesti davanti ad un cappuccino che ha l’odore ed il gusto di un vero cappuccino, cosa non comune da queste parti. L’odore di caffè mi porta alla mente ricordi di quando ero piccolo. Ho sempre amato annusare l’odore dei chicchi di caffè tostati che usciva dalla Torrefazione Giuliani nella strada davanti al negozio dei miei zii. Sì, il caffè è una di quelle cose che mi ricordano casa. Chi l’avrebbe mai detto che un giorno mi sarei sentito a casa in un paesino di trentamila anime sui monti Appalachi e che, davanti ad un cappuccino dall’odore di famiglia, mi sarei messo a riflettere sulla strada che mi ha portato fin qui.
A capodanno è tradizione fare la lista dei buoni propositi per l’anno nuovo come se, in onore del cambio di calendario, dovessimo cambiare anche la propria vita. “Anno nuovo vita nuova”, quante volte l’ho sentito dire da piccolo. A pensarci bene ho vissuto gli ultimi dodici anni della mia vita all’insegna del cambiamento. Il mio primo sogno nel cassetto è stato quello di diventare atleta professionista e di correre con la maglia delle Fiamme Gialle. Investii molte delle mie energie in questo progetto e passai la mia adolescenza sui campi di atletica fino a diventare un personaggio temuto sui blocchi di partenza. Durante gli anni dell’Università mi resi presto conto che per raggiungere il mio obiettivo mi mancava quella cosa chiamata “talento” inoltre il tempo per allenarsi iniziava a scarseggiare, ma, contro ogni aspettativa, ero diventato un studente di tutto rispetto. Questa fu per me una grande rivelazione visto che a scuola non ero mai stato una cima. Durante il secondo anno di Università iniziai il tirocinio come assistente allenatore sotto la guida del mio professore di atletica leggera. Il tirocinio diventò presto un lavoro ed il lavoro una passione. Con la laurea triennale in una mano ed un contratto da allenatore nell’altra, mi trovai di fronte ad un bivio. Già iscritto al corso di laurea specialistica, ricevetti un’offerta di lavoro come istruttore di atletica leggera all’Università e la possibilità di iscrivermi ad un master internazionale in Portogallo che mi avrebbe dato gli strumenti per iniziare un dottorato di ricerca. Questa proposta mi era stata offerta dal professore del corso di Sport Individuali a seguito di una segnalazione delle allenatrici del gruppo sportivo universitario del quale facevo parte da qualche anno. A quel tempo non sapevo nemmeno cosa fosse un dottorato di ricerca, ma finì per accettare la proposta perché il progetto era veramente interessante. Per riassumere una lunga storia in poche parole, in due anni finii il master ed iniziai il dottorato di ricerca mentre insegnavo atletica leggera all’Università e lavoravo come allenatore sul campo. Con mia grande sorpresa nel 2010 vinsi il concorso per un dottorato di ricerca internazionale e, per la prima volta nella mia vita, venivo pagato per studiare e viaggiare. Dopo aver passato dodici mesi negli Stati Uniti e tre mesi in Portogallo, mi resi conto che avevo intrapreso una strada che mi aveva allontanato dai campi di atletica ma mi aveva dato delle nuove prospettive di vita. Conclusi il dottorato di ricerca all’età di ventotto anni e, cosciente del fatto che non sarei mai riuscito a diventare professore in Italia, iniziai a cercare lavoro negli Stati Uniti con la speranza di vincere un concorso all’Università dove avevo studiato. I miei progetti non andarono in porto e finii per rimanere disoccupato con due lauree ed un dottorato di ricerca attaccati alle pareti di casa. Fortunatamente il buon lavoro spesso ripaga e dopo due mesi ricevetti una proposta di lavoro per fare ricerca in un’azienda italiana di fama internazionale con la quale avevo collaborato durante i miei anni di studio. Quando si dice che non tutti i mali vengono per nuocere! In poco più di un anno ho creato le basi per un progetto di ricerca tutt’ora in sviluppo, acquisito competenze tecniche e viaggiato in Italia e all’estero per installazioni di apparecchiature e promozione di prodotti. Non baratterei quel periodo della mia vita con nient’altro. Ero felice, mi sentivo parte dell’azienda ed avevo ormai fatto piani per il futuro quando ricevetti una email dal mio professore americano con un’offerta di lavoro all’Università. La vita a volte è proprio strana: ti prende alla sprovvista e vuole vedere se sei pronto a rimetterti in gioco. La mia vita è cambiata radicalmente nell’agosto 2014 quando mi sono trasferito a Boone, North Carolina, per inseguire il mio sogno di diventare professore universitario.
Che cosa è cambiato in questi anni? È interessante pensare a quanto sono cambiato in questi anni, pensare a come i miei sogni, i miei desideri e le mie scelte mi hanno fatto cambiare ma anche a come, nonostante tutto, mi piaccia sedermi al tavolino di un bar per odorare e gustare un cappuccino ascoltando parole a me familiari come “moca!”, “làte!”, “càpucino!”, ammirevoli tentativi del cameriere di annunciare l’arrivo di un prodotto italiano ormai parte della vita degli americani e mai uscito dalla mia.
In questi ultimi anni mi sono più volte chiesto chi sia Marco Meucci. “Marco l’atleta”, come mi identificavano la maggior parte degli amici di famiglia che seguivano i miei risultati sportivi pubblicati sul giornale locale? “Marco il toscanaccio”, come mi avevano nominato gli amici romani all’Università? “Marco the crazy Italian”, come amano chiamarmi i colleghi americani? “Dr. Miuci”, come mi chiamano i miei studenti che, nonostante s’impegnino, non riescono a pronunciare correttamente il mio nome? Qualche giorno fa ho realizzato che Marco non è altro che una persona con dei sogni, degli obiettivi ed un piano più o meno chiaro su come raggiungerli. Marco è una persona che ama le sfide, incosciente al punto giusto da mettersi continuamente in discussione e sufficientemente determinato ed orgoglioso da portare in fondo ogni lavoro al meglio delle proprie possibilità. Non ho mai dimenticato quanto in quinta superiore uno dei miei professori ci disse: “Per laurearsi all’Università non bisogna essere geni, bisogna avere tre qualità. 1. essere dotati di un’intelligenza media, 2. essere organizzati, nella vita e nello studio e 3. lavorare sodo”. Ho sempre stimato quel professore di tecnologia dell’Istituto Tecnico Industriale “Pacinotti” di Piombino che per me è stato, insieme ad altre maestre e professori che hanno sempre creduto in me, un punto di riferimento ed un’ispirazione.
Quest’anno ho avuto il piacere di passare il Natale con mio fratello. Io e mio fratello siamo legati da un cordone ombelicale che si allunga ma non si spezza, da un legame così forte che sembra aver condizionato perfino le nostre scelte di vita. Uscito di casa all’età di diciannove anni, mio fratello ha completato i suoi studi all’Università di Pisa e finito per trasferirsi nei Paesi Bassi per lavoro. Io e mio fratello siamo cresciuti in simbiosi per diciotto anni; abbiamo frequentato la stessa scuola elementare e media, avuto gli stessi amici, fatto gli stessi sport. Durante queste vacanze è stato interessante vedere quanto il tempo abbia cambiato anche mio fratello e come il nostro rapporto, invece di indebolirsi, sia diventato ancora più forte di prima. Credo che il nostro collante siano stati i valori che ci sono stati trasmessi negli anni dai nostri genitori, due persone speciali che hanno sempre creduto in noi e che ci hanno supportato nelle nostre scelte, anche in quelle che ci hanno allontanato.
Sto raccontando tutto questo perché da solo non ce l’avrei mai fatta (senza la famiglia e gli amici veri non avrei mai creduto in me stesso e senza il loro supporto non avrei mai intrapreso questo interessantissimo viaggio), ma anche perché tutte queste persone hanno avuto la forza di cambiare quando si sono rese conto che il mondo intorno a loro stava cambiando, sono cambiate mantenendo però la propria identità ed i propri valori. Questa breve storia è una semplice riflessione sulla vita, una vita che cambia, che si diverte a metterci alla prova scozzando continuamente le carte e servendoci ogni volta una nuova mano come per dire “bravo ce l’hai fatta, vediamo come ti giochi questa”, una vita che non puoi affrontare con rigidità o in solitudine. Durante questi anni ho conosciuto tantissime persone, alcune di queste sono state la chiave dei cambiamenti della mia vita, altre sono state fondamentali affinché continuassi a credere nei miei sogni e riuscissi a raggiungere i miei obiettivi.
Vorrei concludere questa breve storia con un “take home message”, come si è soliti fare in ambito accademico alla fine di ogni presentazione. La vita mi ha insegnato ad essere paziente, aspettare il momento giusto e non fare scelte affrettate. Siate onesti con voi stessi e con gli altri, lavorate sodo ma concedetevi momenti di felicità da condividere con le persone a voi care. Osservate quello che vi succede intorno ed abituatevi ad ascoltare in modo critico ciò che vi viene detto. Un giorno un professore a scuola ci disse “Tenere gli occhi aperti e le mutande di bandone”. Sono convinto che avrebbe potuto esprimere il concetto in modo migliore, ma il messaggio arrivò forte e chiaro. La vita ci offre sempre nuove opportunità, il prenderle spetta a noi.